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Psicologia occidentale e psicologia buddhista:  una coniunctio possibile?

 

di Vincenzo Tallarico

In questo articolo è mia intenzione esporre alcune idee riguardo la necessità e possibilità dell’integrazione tra le due diverse concezioni della psiche: occidentale e buddhista.

Preliminarmente vorrei precisare per il lettore che i sistemi che tendono a spiegare il funzionamento della mente non sono la mente stessa, allo stesso modo in cui una mappa geografica non è il territorio, ma un coerente sistema che ci aiuta ad averne orientamento e dimestichezza.

Così la nostra psiche verrà vista in maniera diversa, a seconda del paradigma che viene usato per studiarne le funzioni, come ha giustamente affermato il Ven. Ghesce Ciampa Chiatso: ” Se guardiamo alla realtà (e quindi alla nostra mente) con ‘occhiali Madhyamika’, la vedremo in questo modo, se la percepiamo attraverso ‘occhiali Chíttamatra’ sarà Chittaniatra”. Analogo è il discorso se percepiamo la nostra psiche in un’ottica junghiana, o freudiana, ecc.

Non dimentichiamo quindi che il buddhismo è uno strumento che ha come fine la scoperta sperimentale del funzionamento della mente e della sua natura, con una continua analisi per scoprire come essa autenticamente è, e non una fede per adesione che unisce i praticanti nell’affermazione di una credenza rivelata. In tal senso è doveroso che si apra anche alla considerazione e all’utilizzo di elementi concettuali elaborati da questa moderna, ma anche dalle antiche radici storico-culturali, scienza occidentale.

Da un punto di vista storico, possiamo vedere come il buddhismo abbia avuto la capacità di assorbire e quindi utilizzare concetti e credenze presenti nei diversi luoghi in cui veniva ad organizzarsi come sistema, attraverso un lungo periodo di dibattito e trasformazione, ad esempio con le scuole induiste in India o con l’utilizzo di pratiche autoctone nella prima diffusione in Tibet.

In questo nostro secolo, la diffusione del buddhismo in Occidente non può prescindere da una lenta ma progressiva integrazione con le scuole di pensiero filosofiche, le nuove epistemologie scientifiche, la concezione religiosa cristiana e, non ultima, la psicologia.

Per operare in questa direzione, a mio parere, occorre ci sia un’attiva presenza di elementi rispettivamente portatori di esperienze che al momento è necessario risultino separate. Mi riferisco sia a persone che dirigono la loro attenzione a uno studio integrale dei sutra e a una assimilazione profonda che consenta la trasmissione del Dharma buddhista nella maniera più vicina all’insegnamento che ha trasmesso lo stesso nobile Sakyamuni, sia ad altre persone più abilitate alla scoperta di possibili integrazioni fra il buddhismo e le diverse scienze occidentali. Mi preme sottolineare la necessità di comunicazione fra queste figure, mentre la mia impressione è che i loro diversi approcci al buddhismo, al momento, non abbiano terreno di scambio ed elaborazione.

Ora, lo sviluppo unilaterale dei due atteggiamenti può portare da un lato a una pedissequa e dottrinale imitazione delle tradizioni ed esperienze buddhiste di paesi orientali, lontane nel tempo e nello spazio, dall’altro a una disinvolta operazione sincretistica buddhismo-psicologia, che resterebbe relegata in una disimpegnata versione “new age” e di nuovo passerebbe inosservata alla cultura ufficiale occìdentale, come quella che sconfinò, nei primi anni di diffusione del buddhismo in occidente, in una certa area “alternativa” alla cultura ufficiale, che però ha oramai esaurito la propria vitalità ed è rimasta autosegregata in un ghetto culturale, anche se colorato e gratificante.

Per evitare tutto ciò è necessario delimitare i campi di intervento e scegliere interlocutori qualificati.

Personalmente, in quanto psicologo e buddhista, sono interessato ad alcuni segnali che recentemente vengono dati dai più qualificati maestri per seguire le linee di integrazione precedentemente esposte. Mi riferisco a S.S. il Dalai Lama e al Ven. Lama Zopa, che sembra abbia intenzione di continuare l’opera del Ven. Lama Yesce e che guarda alla Universal Education non solo come a una nuova pedagogia per l’infanzia, ma come a un progetto che formi un ambiente culturale capace di interrogarsi sulla costituzione dell’identità di un buddhismo occidentale e favorisca un dialogo con altre discipline occidentali.

Sulla base delle precedenti considerazioni mi apprestavo a formulare i miei interventi durante il meeting internazionale dei direttori, svoltosi in settembre a Osel Ling, presente il Ven. Lama Zopa Rinpoce, essendo stato invitato, come psicologo e praticante buddhista, a intervenire e tenere dei workshops sul tema dell”‘attitudine” nel buddhismo, da un punto di vista psicologico.

Era mia intenzione favorire un ambiente di lavoro in cui si creasse l’opportunità di contattare gli ostacoli alla realizzazione di una buona motivazione, attraverso una loro personificazione in immagini simboliche più legate all’esperienza di ciascuno.

Spesso tra la motivazione di bodhicitta e l’effettivo sviluppo di questa vi sono ostacoli derivanti da quello pseudo-rassicurante atteggiamento che può scaturire dalla sensazione di un Io permanente e non composto da parti, e dalla necessità di difenderlo.

In campo occidentale, la psicologia deve molto a Freud e alla scoperta dei meccanismi di difesa dell’Io, inconsci e automatici, da cui deriva la teoria psicanalitica del disagio psichico, ma queste dinamiche erano già conosciute dal Buddha, come ha dimostrato nel suo articolo Rune johansson (Psicoterapia e Meditazione, Mondadori ed., 1991, Milano). L’lo si difende dall’angoscia provata nelle fasi precoci del suo sviluppo, ma si difende sostanzializzandosi, irrigidendosi e restringendo il campo dell’interesse ad una autogratificazione che lo rinchiude in una gabbia statica e solitaria. La sua mancata relativizzazione impedisce all’Io di fare esperienza del sacro, del misterioso, e del rapporto amorevole con il mondo: questa è la verità della sofferenza e della sua causa nella Psicologia Analitica. Ma qual è il metodo per far cessare la sofferenza? E’ l’indagine analitica sui meccanismi difensivi dell’ego e sulla possibilità di scoprire un inconscio progetto di equilibrio e armonia, presente negli strati profondi della nostra mente: quel “fattore di autoguarigione” di cui hanno spesso parlato Jung e la sua allieva Dora Kalff.

Durante il meeting dell’FPMT ho avuto l’opportunità di vedere al lavoro i responsabili di diversi Centri del mondo e l’impressione che ne ho ricavato è stata di una grande professionalità, permeata da un atteggiamento positivo e aperto al nuovo.

Fra i numerosi ed interessanti interventi, variamente riferentesi al tema generale dell’educazione, citerò quello di Valentino Giacomin e Luigina De Biasi, curatori di una sperimentazione svolta in una classe elementare veneta tesa a valutare l’applicabilità, in quel contesto, delle idee su cui si basa la visione buddhista della mente.

Questa ricerca, a mio parere, potrebbe essere fortemente innovativa rispetto alla pedagogia ufficiale, perché propone una concezione olistica del sapere e una didattica in cui le varie materie sono integrate verso un superamento del dualismo corpomente, bene-male, ecc. E’ infatti di danno dividere le materie in compartimenti stagni, fatto che inevitabilmente provoca una frammentazione del sapere nella mente del bambino, che ancora identifica la conoscenza con un solo insegnante e che viene invece obbligato ad adeguarsi alle inevitabili diversità metodologiche di più figure.

Queste considerazioni muovono Valentino Giacomin a proporre la formazione di una scuola buddhista per bambini. Al di là della possibilità di attuazione in qualche parte del mondo: mi sembra giusto pensare, nei centri FPMT, a dare ai nostri figli, prima generazione di buddhisti non convertiti, l’opportunità di evitare shock culturali e di avvicinarsi a valori interni al sentiero buddhista, fin dall’inizio. E’ di indubbio beneficio educare i bambini a sentirsi in sintonia con le qualità di buon cuore, rinuncia alla colonizzazione pubblicitaria e senso di interdipendenza con l’ambiente naturale e sociale. Tutto questo non può essere trasmesso da un insegnante che non abbia lavorato in prima persona su una simile concezione del mondo.

Credo comunque che l’esperienza di Valentino e Luigina, per trasformarsi in ricerca, debba avvalersi di caratteristiche proprie della moderna sperimentazione e di una teoria dell’apprendimento pedagogico che si basi su dati rigorosamente scientifici, che possano quindi essere presentati in tutti i contesti culturali. Questo non significa prima ricercare e poi lavorare, potendo la fase teorica e applicativa anche coincidere.

Nella discussione scaturita dalla presentazione di un video, che documentava il lavoro di Valentino e Luigina, Lama Zopa ha sottolineato la significatività dell’esperienza e la necessità di proseguirla, non solo in Occidente ma anche in Oriente, manifestando così il suo interesse verso tutto ciò che può venire dagli studiosi occidentali per gli interventi in campo educativo.

Lo stesso Lama Zopa ha poi riportato la propria esperienza fatta in Australia, durante un corso svolto appositamente per malati terminali, ricordando che in effetti non differiva affatto da un corso di Lam.Rim, il sentiero graduale che ha la capacità di guarire o perlomeno di dare significato alla sofferenza e quindi di raggiungere la pace mentale.