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Guarigione buddhista e guarigione junghiana

 

di Vincenzo Tallarico

Nel campo della psicologia occidentale possiamo riconoscere allo psicologo svizzero C.G. Jung la specificità di essere stato il primo ad aver studiato e proposto l’esperienza del transpersonale come elemento di primaria importanza nel lavoro terapeutico.

Con la sua teoria della psiche, il suo lavoro analitico, ma soprattutto con la sua vita, Jung mostra come l’uomo possa realizzare la pienezza della propria esistenza solo quando comprende che non il proprio lo limitato, ma il Sé (1) è il soggetto della personalità conscia e inconscia, e come l’Io sia solamente il centro della psiche conscia.

Poiché il concetto buddhista del nonio ha suscitato notevoli incomprensioni tra gli esponenti della psicologia occidentale contemporanea, mi preme ricordare come la scuola filosofica buddhista Madhyamaka non neghi l’esistenza dell’Io, ma ne confuti la concezione di autoesistenza e permanenza, che invece noi normalmente sperimentiamo. L’ Io considerato esistente viene definito come: ” … una mera imputazione sulla base dei cinque aggregati psicofisici”, ma tale Io svolge le diverse funzioni proprie della personalità e la sua vacuità di autoesistenza non è in contraddizione con la sua esistenza relativa.

Se non comprendiamo bene quello che realmente il Buddha ha insegnato riguardo al non-Io, potremmo cadere nell’errore di confondere l’Illuminazione con stati psicotici o narcisistici, dove vi è una fusione dell’Io con gli oggetti percepiti (una condizione in cui l’lo perde tragicamente i suoi confini). Al contrario, l’Io relativo è considerato notevolmente importante sia nel buddhismo che nella psicologia occidentale e la condizione perché possa essere trasceso è quella di un buon adattamento dell’individuo al suo ambiente.

L’Io può essere relativizzato solo dopo che sono state affrontate le varie tappe evolutive e realizzata una propria identità personale, mentre tutto ciò non può avvenire in persone affette da turbe della personalità. L’Io può essere trasceso solo se è già stabile ed equilibrato e la dissoluzione non riguarda le sue normali funzioni, ma le concezioni dualistiche che esso produce.

Dopo questa doverosa premessa, andiamo a identificare alcuni elementi di comparazione, non per un mero esercizio intellettualistico, ma per identificare elementi comuni nella pratica analitica e meditativa, al fine di pervenire alla conclusione che se due sistemi parlano una “lingua simile” pur concepiti in differenti culture ed epoche storiche, con molta probabilità hanno individuato dinamiche psicologiche che sono connaturate alla psiche umana. Come già citato nel precedente articolo, Jung suddivide il lavoro terapeutico in quattro stadi. Consideriamoli alla luce della conoscenza buddhista:

La CONFESSIONE. In analisi corrisponde alla esplicitazione di tutto il disagio psichico portato dal paziente, tutto ciò che fa soffrire se stessi e gli altri, quello che in linguaggio analitico è detto: lavoro con l’Ombra (indicando con questo termine il nostro bagaglio fatto di materiale psichico e condannato dalla morale personale e comune, tutto quello che normalmente è inconfessabile). Parlandone e consapevolizzandosi, il paziente si alleggerisce di quel peso di fronte a una persona non giudicante, quindi accettante del “buono” e del “cattivo” dell’altro. Subito viene alla mente ciò che nella pratica buddhista fa parte della preghiera in sette rami dove (nel “guru yoga” di Lama Tzong Khapa) è detto: “Ogni azione negativa del corpo, della parola e della mente che ho accumulato da tempo senza inizio, e in particolare qualsiasi trasgressione dei miei tre voti, dispiacendomene profondamente la dichiaro in continuazione dal mio cuore, con profondo rincrescimento”. Da notare che quando si parla di “tempo senza inizio” ci si riferisce anche alle trasgressioni compiute nelle vite passate, di cui non siamo consapevoli; nella pratica comune dei colloqui che ogni praticante ha con il proprio maestro, tuttavia, si confessa quello che non va nella vita presente. La meta della consapevolezza buddhista è più vasta di quella psicoterapeutica, in quanto ci si propone di conoscere e poi di confessare tutti gli errori delle vite precedenti.

La CHIARIFICAZIONE. Come i metalli umili, nell’alambicco dell’alchimista, possono essere privati delle impurità, anche la nostra mente può essere depurata dei difetti mentali. Nel buddhismo è sovente usata la metafora dello specchio coperto di polvere, la cui eliminazione porta all’emergere spontaneo della chiarezza e della capacità di riflettere, proprie della mente pura. In linguaggio analitico la “polvere” è costituita da complessi a tonalità affettiva legati ad esperienze conflittuali irrisolte con le figure parentali, che causano una non differenziazione dalle immagini interne genitoriali. Per Bernard (psicologo analista junghiano, autore del libro Mitobiografia, AdeIphi, Milano 1969, p. 39): ” … la liberazione dall’ignoranza, dalla inconsapevolezza, dal nonsenso, dalla sofferenza, consiste in un ampliamento o meglio in una trasformazione della coscienza in cui l’Io si differenzia. Da un lato l’evidenza primitiva che l’Io sia tutto e faccia tutto viene abbandonato a favore di un’istanza sopraordinata che lo “vive”. Ma poi l’Io deve ancora tracciare un limite tra sé e gli archetipi dei genitori, che sono l’esponente di tutte le esperienze passate, ma ancora agenti nell’Io (karma)”.

Quest’ultima citazione ci fa capire come l’EDUCAZIONE proposta da Jung è quella della consapevolezza che chiarifica e il cui continuo operare provoca trasformazione.

In campo buddhista è nota ai suoi discepoli la frase del ven. Ghesce Jampel Senghe, che paragonava la purificazione all’azione di far prendere luce a una pellicola sviluppata: la luce brucia i fotogrammi come la consapevolezza brucia il karma passato. Questa è l’unica strada disponibile all’uomo.

Ed eccoci giunti all’ultima tappa: la TRASFORMAZIONE. Nel sentiero buddhista la trasformazione inizia con la Rinuncia, che si può realizzare completamente soltanto comprendendo la mancanza di un Io esistente inerentemente; solo con questa realizzazione cesseranno le strategie mentali difensive che limitano la personalità. La cessazione di tali dinamiche avrà come risultato l’estinzione della paura: dal momento che non c’è nessun Io rigido da difendere, non ci sarà nessuna paura di perderlo.

La pratica della consapevolezza, quindi della moralità, e lo sviluppo di un buon cuore, purificano le abitudini difensive che creano angoscia e chiusura mentale, facilitando invece una dissoluzione dell’Io in quanto sede di aggressività, attaccamento, ignoranza.

Nella Psicologia Analitica, analogamente, Jung propone la relativizzazione dell’Io come metodo successivo alla sua fortificazione. La parte dell’Io che è sede di distorsioni e proiezioni deve essere trasformata affinché il Sé possa emergere e l’Io, correttamente relazionato al Sé, risulti subordinato alla totalità della psiche. Anche per Jung, quindi, quello che alla fine viene dissolto è l’Io concreto e inflazionato, che persegue soltanto i propri propositi personali, mentre l’Io sano assurge al ruolo estremamente importante di anello di collegamento con il Sé.
(1) Questa parte psichica può essere agevolmente paragonata a quella “natura di Buddha” che risiede in tutti gli uomini.
E’ importante chiarire il concetto junghiano di Se’, che può dare adito a fraintendimenti nel lettore avvezzo alla terminologia buddhista. Per “Sé” Jung intende un’immagine del sommo potenziale dell’individuo e dell’unità complessiva della personalità. “Il Sé non è soltanto il centro, ma anche l’intero perimetro che abbraccia coscienza e inconscio insieme; è il centro di questa totalità come l’Io è il centro della mente cosciente” (C.Jung, Opere complete, vol. 12, p.444). A mio parere il concetto junghiano di Sé può essere paragonato al Thathagatagarba: la natura di Buddha dentro ogni uomo).
BIBLIOGRAFIA

Coward H., Jung and eastern tought, Richard D. Mann and Jean B. Mann editors, New York, 1985.

Kalff Martin, Lo sviluppo dall’ Io al Sé nella pratica junghíana, Paramita, quaderni di buddhismo, Roma 1985.

Mazzarella: Il buddhismo tibetano incontra l’Occidente, Centro Ghe.Pel.Ling, Quaderni di psicologia, Milano 1983.

Moacanin R., Jung psicology and tibetan buddhism, Wisdom Publication, London 1987.

Vincenzo Tallarico, laureato in psicologia a Roma con una tesi su “La concezione dell’ Io nella scuola junghiana e nella scuola buddhista madyamaka”, è membro dell’ Associazione Italiana di Psicologia Analitica (A.I.P.A.) e terapista del gioco della sabbia.